«Sul Fatto quotidiano di ieri, Selvaggia Lucarelli scrive:
“Michela Murgia è viva.Mi sembra la prima notizia da dare in questi giorni strani di coccodrilli prematuri, illuminazioni tardive e revisionismi patetici che ci tocca leggere un po’ dappertutto, in una gara piena di atleti della compassione che fino a ieri nessuno aveva mai visto sulla pista. Ha appena trascorso un giorno e una notte sull’Orient Express, sta per uscire il suo libro, abbraccia gli amici nel suo bar preferito, si rasa i capelli con il rossetto rosso e un abito di Valentino. É più viva di molti di quelli che pensano di essere vivi e sono morti di ipocrisia da un bel po’, un’ipocrisia che sfoggiano con particolare coraggio proprio quando sarebbe il momento di un po’ di sana vigliaccheria. Proprio quando sarebbe l’ora di tacere dopo aver tanto parlato, offeso, dileggiato. Dopo avere destinato alla solitudine chi, come Michela Murgia, si è sempre esposto”.
E aggiunge:
“Vediamo le lacrime asciutte di quelli che hanno pubblicato sempre la sua foto più brutta, una foto in cui potesse somigliare il più possibile alla megera cattiva, di quelli che sono stati zitti mentre veniva aggredita per le sue idee da folle inferocite, mentre i titolisti facevano il lavoro sporco di alterare e involgarire il suo pensiero. Non vi siete accorti, per giunta, che il suo grido di dolore non è stata questa intervista, ma un lungo articolo che Murgia scrisse sul Il Post due anni fa, un articolo in cui spiegava quanto sia doloroso accorgersi di non essere difese mentre sei seppellita da una shitstorm per un’idea (parlava del caso Figliuolo), mentre tu dimagrisci e prendi farmaci per sopportare quella violenza. Era in quel momento che servivano le vostre parole.
Oggi sono solo viscido paternalismo di chi pensa che una persona che sta per morire sia debole, sia il condannato che va verso il patibolo a cui puoi concedere un ultimo pasto con tre portate.
Spero di vivere abbastanza per vedere queste persone finire ingoiate dallo loro stessa ipocrisia”.
Ho provato la stessa emozione (e anche la stessa rabbia), leggendo qua e là. E ho pensato a quanto è facile dire “mi dispiace” dopo, come se bastasse. Ho pensato anche a quella raffica di scuse che la Chiesa offrì negli anni Novanta, chiedendo perdono a Galilei, agli eretici e persino alle streghe che aveva bruciato.
All’epoca, Beniamino Placido riportò un aneddoto tratto da Anne Michaels, Fugitive Pieces. Non un aneddoto, una parabola. Questa, che mi sembra perfetta:
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MichelaMurgia #
Lipperinihttps://www.lipperatura.it/chiedere-scusa-la-parabola-del-rabbino/