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della notte, ospitati dagli stessi abitanti della via, sfuggono ancora.

Lo stesso giorno altri compagni vengono ospitati da “L'Aradio - Ricerca Aperta”.

Ancora arriva la polizia e arresta i redattori di ambedue le emittenti.

D’altronde il KoSSiga l’aveva detto:
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“Per ogni volta che Radio Alice riaprirà, noi la richiuderemo”.
(Illuso!)

Ma perché questo accanimento contro gente che “parla”, da parte di un uomo che protesse assassini come quelli di Lorusso o Giorgiana Masi, che partecipò all’organizzazione terroristica #Gladio, che
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preferì far morire Moro, piuttosto che patteggiare con i brigatisti (quegli stessi brigatisti con cui intratteneva corrispondenza e che andava a festeggiare ai loro matrimoni)?

Perché Alice era un modello.

#RadioAlice aveva dimostrato nella pratica che "chiunque poteva
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parlare”; non occorrevano deleghe, moderazioni, professionalità o autorizzazioni.

Non occorreva un editore o un partito che dettasse "la linea", nemmeno una "spartizione democratica” di spazi e tempi.

Non c’era bisogno di una proprietà, né del mezzo, né dei contenuti.
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Non serviva nemmeno essere d’accordo e condividere le idee, bastava il rispetto di ogni altra individualità.

Non a caso vi parlavano, senza soluzione di continuità, comunisti d’ogni specie, anarchici, autonomi, cani sciolti, indiani metropolitani, etc.

Non per sbaglio
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parlavano sulle stesse frequenze le compagne femministe e il gruppo di maschi lasciati dalle morose (che, avendo adottato un’ottica femminista, avevano rotto la coppia) e lasciando giustamente spazio anche al “Gruppo Frocialista Bolognese”.

#RadioAlice era la dimostrazione
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vivente che la qualità della comunicazione poteva essere garantita, anzi promossa, in un'organizzazione acefala, senza gerarchia e strutturazione.

KoSSiga non era impensierito dal fatto che telefonavamo in diretta ad Andreotti, spacciandoci per Umberto Agnelli o che
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chiamavamo regolarmente in questura, per chiedere di fermati o arrestati.
Era preoccupato perché chiunque poteva farlo senza chiedere il permesso o la mediazione di un "gestore".

Ugualmente il PCI era arrabbiato perché il primo scandalo immobiliare (Parco Talon)
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dell’amministrazione dichiarata "dalle mani pulite", non fosse stato rivelato da giornali con cui era possibile accordarsi con qualche scambio di favori, ma da speaker letteralmente scatenati (cioè senza catene), che erano impossibili da blandire.
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Una struttura di comunicazione orizzontale e completamente acefala non era mai esistita prima di #RadioAlice (né, forse, dopo).

Ma Alice non era nata per sbaglio.

Il nome stesso della cooperativa editrice (di cui sono stato il presidente - formale, ma non reale) era
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indicativo:
“Cooperativa Studi e Ricerche sul Linguaggio Radiofonico”.
Non ci fu improvvisazione, nel progetto.

Dal dicembre ’74, fino alla prima trasmissione del febbraio ’76 e ancora per tutta la sua vita successiva, discutemmo su cosa volesse dire creare uno strumento
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che doveva “dare voce a chi non aveva mai avuto la parola”; in cui non vi fosse sostanziale differenza fra chi parlava e chi ascoltava (esplicitato dal motto “Ki trasmette a Ki”).

Non basta mettere lì un microfono (o almeno allora non bastava) perché poi chiunque venga a
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parlarci dentro.

In estrema sintesi, possiamo dire che per ottenere questo risultato dovemmo rimuovere tre grandi ostacoli:

1) il linguaggio:
Nessuno doveva sentirsi “inadeguato" a parlare.
Così decretammo che Alice avrebbe parlato con la lingua della strada.
Erano ammesse
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“parolacce” e bestemmie, dialetto e congiuntivi sbagliati.
Fu così che il Resto del Carlino sentenziò “Radio Alice scrive i suoi testi sulla carta igienica”.

2) il palinsesto:
Nessuno doveva chiedere lo spazio e il diritto di parola a qualcun altro.
Questo voleva dire che
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non c’erano trasmissioni fisse e spazi dedicati per nessuno.

Chiunque poteva trasmettere quello che voleva, quando voleva, se voleva.
Se il microfono era libero, bene, se non lo era, si sedeva di fianco a chi già era lì, senza il bisogno di chiedere il permesso.
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3) il luogo fisico:
Sembra banale, ma parla chi sta davanti al microfono. E così in tutte le radio qualcuno ti deve aprire la porta e permetterti di entrare. Ad Alice, no.

Fin dal primo giorno la porta fu aperta, ma, soprattutto, fummo i primi al mondo a collegare il
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telefono in maniera strutturale al mixer radiofonico (ce lo costruimmo).

Per trasmettere non dovevi neanche venire in via del Pratello, telefonavi e venivi messo in diretta, da casa, dal bar, dal lavoro.

Per questo fummo accusati di “dirigere” gli scontri con la polizia.
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Un compagno vedeva muoversi una colonna dei carabinieri, entrava in una cabina e con un gettone informava la città.

Era solo cronaca in tempo reale (oggi è quasi la normalità. Oggi.).

E così i bolognesi impararono a usare la radio per i loro bisogni politici, ma anche
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per quelli personali.
C’era chi telefonava per dare appuntamento alla morosa o agli amici, tanto era certo che tutti stessero ascoltando.

Così, noi del gruppo fondatore, nel giro di un mese, ci trovammo “espropriati” della radio.
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